Le storie che aiutano a pensare: ecco perché è importante raccontarle
Sebbene si possa parlare di un’inclinazione umana alle grandi domande che emerge non appena i bambini acquisiscono i primi elementi di linguaggio, il nostro domandarci non appare casualmente, ma sempre in risposta a un qualche stimolo. Anche se non ce ne accorgiamo.
Non possiamo, per esempio, entrare in classe chiedendo: “Che cos’è la giustizia?”, oppure “esiste una felicità duratura?”. Lanciate così, senza capo né coda, le domande non hanno nessuna risonanza. Non ci poniamo il problema della giustizia infatti finché non lo viviamo, anche nei minimi termini. Se non ho mai riflettuto al tema, se non mi è mai capitato di pensarci, sarà difficile che io possa dire qualcosa in proposito. La domanda non suggerisce nulla al di fuori di se stessa.
Ecco quindi che entra in gioco il tema della gradualità: i bambini, i ragazzi, ma anche gli adulti, vanno avvicinati alle domande, ai problemi filosofici. Solo così potranno sentire la domanda pienamente, riconoscerla come propria e quindi volersi impegnare nell’arduo gioco del pensare insieme, che richiede entusiasmo, coraggio e un bel po’ di fatica.
Buona parte dei nostri laboratori, si potrebbe dire, consiste in grandi manovre di avvicinamento. Le strategie per avvicinarsi al cuore della domanda sono diverse, ma le mie preferite restano le storie. Non esiste, per me, strumento migliore per immergersi in dimensioni extra-ordinarie. Forse io, singolarmente, non mi sono mai posto il problema della giustizia, ma leggendo la storia di qualcuno che ha subito un’ingiustizia, in breve tempo lo farò mio. O meglio: lo sentirò. Ne avrò fatto esperienza, anche se di seconda mano.
Sono tantissimi gli studi che dimostrano come l’essere stati abituati alle storie sin da piccoli ci renda esseri umani più pensosi, più riflessivi, empatici e consapevoli. Per me, ogni volta che lavoro con bambini e ragazzi, l’intuizione è confermata: le storie ci affascinano, le facciamo subito nostre, ci coinvolgono, ci emozionano, ci lasciano qualcosa da pensare.
Ecco allora che per parlare del tema dell’identità – chi sono? in che senso posso dire di distinguermi dagli altri? Quanto degli altri c’è in me? – leggo ai bambini la storia di Pezzettino, un grande classico raccontato e illustrato da Leo Lionni. Pezzettino è in cerca della propria identità: si sente incompleto e per questo si convince di essere il pezzetto di qualcun’altro.
Quando mi pongo una domanda infatti è perché ho incontrato qualcosa che ha fatto sorgere in me quella domanda. Se mi chiedo dove sia la trattoria più vicina, per esempio, è perché ho percepito in me lo stimolo della fame. Se mi chiedo perché il cielo è blu, probabilmente è perché mi è capitato di guardarlo.
Il nostro pensiero è fatto di lunghissime concatenazioni di domande. Domande semplici, quotidiane. Ogni tanto invece emergono domande che hanno uno spessore diverso, che interrogano il mistero che è questa vita o che mettono in dubbio ciò che diamo per scontato. A noi filosofi interessano queste domande. Lavorando con bambini e ragazzi, dobbiamo chiederci come dar loro spazio e come promuoverle e accoglierle.
«Il suo nome era Pezzettino. Tutti i suoi amici erano grandi e coraggiosi e facevano cose meravigliose. Lui invece era piccolo e di sicuro era un pezzettino di qualcuno, pensava, un pezzetto mancante. Molto spesso si chiedeva di chi fosse il pezzettino e un bel giorno decise di scoprirlo».
Dopo aver letto la storia in una seconda elementare, il dialogo parte con grande naturalezza e spontaneità. Pongo ai bambini domande sul senso di identità, sulle cose che ci compongono e che fanno parte di noi (quali sono i nostri pezzettini?), sul rapporto con gli altri. Ripenso alle parole di Carlo, 7 anni, che come preso da un’illuminazione a un certo punto afferma: «Pezzettino all’inizio è triste, poi capisce di non essere pezzo di nessuno se non di sé stesso». «Fatto a sua volta di pezzettini», aggiunge un suo compagno.
Altra città, altra scuola. Siamo in una quinta elementare. Abbiamo fatto un lungo percorso partendo da due storie molto simili: Giacomo di cristallo, di Gianni Rodari, e La bambina di vetro, di Beatrice Alemagna. Entrambe le storie raccontano di un bambino trasparente, di cui tutti possono vedere i pensieri e le emozioni, e della loro difficoltà a essere accettati. Chiedo ai bambini come si sentirebbero se fossero trasparenti, se tutti potessero leggere i loro pensieri.
«Mi sentirei leggera, diversa, strana». «Mi confonderei con gli oggetti, cambierei colore alla luce del sole fino all’oscuro buio della notte». «Mi sentirei imbarazzato». «Mi sentirei triste perché gli altri inizierebbero ad arrabbiarsi con me». Ci vengono in mente diverse domande: ci sono cose che devono rimanere nostre, che vogliamo custodire e proteggere dagli sguardi altrui? Quanto sono importanti l’onestà e la sincerità? Ci sono bugie buone?
La volta successiva entriamo ancora più a fondo nelle storie e immaginiamo di essere dei piccoli Giacomo e delle piccole Gisèle: che cosa si vedrebbe, dentro di noi, se fossimo trasparenti? Dove collochiamo, nel corpo, pensieri, emozioni, sensazioni?
Ci sarebbe la paura, nera e oscura, dicono alcuni. Paura che sta negli occhi (“perché le cose prima le vedi e poi ti fanno paura”), nella pancia (“perché quando hai paura ti viene il mal di pancia”), nei piedi (“perché poi vuoi scappare”), nella pelle (“perché sudi freddo”), e così via. C’è l’amore, che sta nella bocca, negli occhi (“perché lo capisci con uno sguardo”), nelle braccia e nelle gambe (“perché l’amore si dimostra con i fatti”), nel naso (“l’amore si respira”). Scopriamo, a forza di farci domande, di avere un corpo tutto senziente, tutto pieno di vissuti: dal mignolo del piede fino alla punta dei capelli.
Ogni volta mi stupisco della ricchezza del pensiero dei bambini. Della loro raffinatezza percettiva, della complessità dei loro ragionamenti. Del loro saper cogliere le sfumature. Ma a questo bisogna arrivare. Le loro domande e i loro pensieri più autentici, spesso, sono chiusi in un cassetto ben sigillato. Soprattutto a scuola: i bambini sanno che non c’è né lo spazio né il tempo, e se c’è, è sempre poco. Ma il pensiero richiede lentezza e, appunto, gradualità. A poco a poco, se si procede con cura, le domande arrivano. Si tratta solo di trovare le strade – e le storie – giuste.