di Alessia Marchetti
Una delle obiezioni, o meglio, delle preoccupazioni, che più spesso ci sentiamo muovere durante i nostri corsi di formazione alle pratiche filosofiche dagli insegnanti è: “ma questo spingere i bambini a interrogarsi continuamente e a mettere in dubbio tutto non rischia di disorientare eccessivamente, di creare troppa incertezza?”. Tipicamente a questa domanda rispondo chiamando in causa il contesto, il setting circolare, l’ora di laboratorio specificamente dedicata al pensiero filosofico, che assolve una funzione di circoscrizione del disorientamento e di protezione da suoi pericolosi eccessi, in quanto luogo controllato, contenuto e delimitato.
Lo spazio della sessione di dialogo filosofico, dove si sta insieme seduti in cerchio, guardandosi in faccia l’un l’altro, è lo spazio delle domande, che lì trovano una propria collocazione, vengono espresse e condivise, ascoltate e discusse, e questo, è vero, genera, in alcuni casi, stati di disorientamento e incertezza. Ma appena suona la campanella e il cerchio si disgrega per far spazio al ritorno dei banchi e della cattedra, tutto ritorna in un qualche modo alla normalità. Qualcosa è successo nei bambini, certamente non sempre e soprattutto non in tutti, qualcosa si è mosso e ha messo in moto qualcosa, ma il disorientamento è contenuto in quel riassestamento del setting della classe, nel fatto che nell’ora seguente si fa lezione di italiano o di scienze o si ritorna a casa, reinseriti nello schema consolidato delle proprie abitudini. L’incertezza trova i suoi confini all’interno dell’ora del laboratorio di filosofia, dove può essere gestita con attenzione dal facilitatore ed essere attenuata in virtù della sua natura condivisa con gli altri compagni.
Ad essere sincera, però, questa risposta non mi convince davvero. La trovo parzialmente vera e certamente rassicurante, per me prima che per gli insegnanti a cui rispondo. La verità è che l’incertezza non è così facile da arginare, ma soprattutto mi chiedo: deve davvero essere arginata? In fondo, se dovessi descrivere qual è il compito di un facilitatore di dialoghi filosofici, direi proprio che è quello di educare all’incertezza.
Mi sembra che i bambini, e in realtà le persone in generale, non siano abituate a convivere con l’incertezza, con il fatto che per certe domande non si possano dare delle risposte giuste in senso assoluto, univoche e definitive. Nella mia esperienza mi è capitato spesso di constatare lo spaesamento e, per certi versi, la resistenza dei bambini nell’abbandonare il modello per cui a domanda corrisponde risposta, al singolare. In fondo anche la scuola abitua a questo: l’insegnante ti interroga, ti fa una domanda e tu devi fornire la risposta giusta, quell’unica risposta giusta che avresti dovuto imparare.
Nel corso di un laboratorio in cui stavamo affrontando la domanda “Perché siamo qui?”, e in cui avevamo chiesto a tutti i bambini di rifletterci e di scrivere la propria risposta sul quaderno per poi condividerla con i compagni, Sara, una bambina di nove anni, ha reagito così: quando è arrivato il suo turno, ha iniziato a leggere “Noi siamo qui per…”, si è interrotta, ha chiuso bruscamente il quaderno e ha detto: “no, no, ho sbagliato”. L’uso del termine ‘sbagliato’, il fatto che lei pensasse che ci fossero risposte giuste e risposte sbagliate ad una domanda come quella riflette, io credo, una certa abitudine nel modo di pensare, che si concretizza in un tentativo di riduzione della complessità, e quindi dell’incertezza, attraverso l’imposizione di categorie nette come giusto e sbagliato. (La risposta di Sara era peraltro bellissima: “Siamo qui per amare e arrabbiarci”, aveva scritto).
Dall’altro lato – è importante dirlo – la potenziale pericolosità dell’incertezza la stiamo sperimentando in questi giorni, giorni in cui ci ritroviamo ad affrontare un’emergenza sanitaria dal peso certo non trascurabile. Si è visto come l’incertezza e la confusione in cui si sono ritrovate molte persone abbia dato luogo a comportamenti irrazionali, a fenomeni di panico e, certo, stia incidendo a livello psicologico e esistenziale in maniera piuttosto profonda in ognuno di noi, me compresa.
Tuttavia, è importante tracciare una linea di distinzione tra due stati di incertezza diversi, in quanto aventi origini differenti: uno con radici, per così dire, ‘profonde’ e uno con radici ‘superficiali’. Mi spiego. Il primo stato è quello che deriva dalla reale mancanza di informazioni, dovuta alla novità del fenomeno che si sta affrontando e insieme ai limiti intrinseci alle molteplici scienze che sono chiamate a farvi fronte: le scienze mediche, la virologia, le scienze statistiche, quelle economiche e anche quelle politiche, che in un qualche modo devono cercare di far stare insieme tutte le istanze che derivano dalle precedenti. Ognuna di queste scienze è caratterizzata da un certo grado di incertezza, tanto nelle spiegazioni che formula, quanto e soprattutto nelle previsioni che le vengono richieste. Questa incertezza è associata alla loro stessa struttura, agli stessi metodi su cui si fondano; certo, all’aumentare dell’informazione disponibile il grado di precisione e correttezza aumenta, ma l’incertezza permane.
Il secondo stato di incertezza non ha origine, come questo, dall’intrinseca complessità delle cose e dall’effettiva, spesso limitata, conoscenza che possiamo averne, quanto piuttosto da un modo confusionario e superficiale di guardarle (e poi raccontarle). Questo secondo stato deriva dal primo e ne costituisce una deriva: si basa sul principio per cui, visto che non si capisce bene come stiano le cose, allora ognuno è legittimato a dire la propria, ad esprimere il proprio parere sulla faccenda, agendo su basi alquanto discutibili quali originalissime e creative intuizioni, paranoie personali, interessi economici o di popolarità o, in alcuni casi, per semplice noia.
Insomma, per capirci, virologi in disaccordo sul da farsi e che forniscono informazioni divergenti sull’entità e sulle caratteristiche del fenomeno sono una cosa (soprattutto all’inizio del suo manifestarsi, quando l’informazione disponibile è davvero poca); opinionisti televisivi, direttori di giornali di dubbia credibilità, Pincopallini qualsiasi magari già invischiati in casi precedenti di truffa o diffusione di fake news, che pontificano su complotti vari, senza esibire alcuna evidenza o argomento valido, sono un’altra.
Sicuramente la faccenda è più complicata di così. Credo però che sia importante rimarcare questa distinzione per chiarire che l’incertezza a cui è realmente potenzialmente pericoloso esporre i bambini, in quanto generatrice di confusione, è questa seconda, e non la prima. Riconoscere l’incertezza profonda insita nelle cose e nei nostri mezzi di conoscenza è un primo fondamentale passo per stare nella complessità del reale, evitando, da un lato, dogmatismi a-critici che si traducono nell’accettazione passiva di qualsiasi cosa venga da chicchessia passata come vera e, dall’altro, stati di incertezza superficiali che sfociano in forme di relativismo estremo dove anything goes, dove, cioè, tutte le opinioni vanno bene e stanno sullo stesse piano, tanto quelle del medico che porta argomenti tecnici quanto quelle del ciarlatano che sparla senza alcuna base. Riconoscere l’incertezza profonda, dunque, si costituisce anche come efficace anticorpo per resistere alla tentazione dell’incertezza superficiale e per non cadere vittima della disinformazione.
Come educare all’incertezza allora? I modi sono certamente tanti, e le pratiche di dialogo filosofico, credo, sono tra questi, proprio perché offrono l’occasione di esperire e riconoscere stati di incertezza profonda, arginando le forme di incertezza superficiale, stati cioè in cui l’incertezza non è sinonimo di confusione o di relativismo estremo, dove si ha la sensazione che tutto sia “campato per aria”. In una sessione di dialogo filosofico, se questa riesce bene, naturalmente, l’incertezza diviene sinonimo di riconoscimento della complessità insita nel reale, e dell’importanza di indagare tale complessità con profondità, attraverso la riflessione, il ragionamento e l’argomentazione delle proprie opinioni, che trovano il loro limite e insieme la propria spinta nel confronto con le idee degli altri.
Un esempio concreto renderà forse più chiaro questo punto. Il contesto è quello di un corso di formazione per docenti di scienze di scuola secondaria di secondo grado. Il tema era quello dell’editing genetico fatto per mezzo dell’innovativa tecnica CRISPR Cas-9, che consente di modificare il DNA con una precisione, rapidità e semplicità prima impossibili con le tradizionali tecniche di ingegneria genetica. Naturalmente, oltre alle applicazioni di CRISPR nel campo delle tecnologie alimentari e della terapia medica su cellule somatiche, non sono mancate le prime sperimentazioni nella modifica del genoma di embrioni umani. Questo, come è facile aspettarsi, ha suscitato un grande dibattito sul piano etico. L’idea del corso di formazione era proprio quello di far seguire ad una parte scientifica, fatta in laboratorio, dove i docenti svolgevano in prima persona protocolli sperimentali attraverso l’impiego della CRISPR, un workshop di dialogo critico, finalizzato a riflettere sulle implicazioni etico-filosofiche di questa tecnica. Il modello che abbiamo usato è stato quello della comunità di ricerca: a partire da diversi articoli di divulgazione scientifica inerenti a CRISPR, i docenti sono stati chiamati a formulare delle domande, che venivano poi indagate attraverso il dialogo. Sono emersi interrogativi del tipo: “Fino a che punto è lecito modificare il genoma umano?”; “Qual è il confine tra terapia e miglioramento?”; “Gli scienziati sono responsabili delle implicazioni sociali ed etiche delle loro scoperte?”; “È possibili formulare una normativa universale o deve essere adottato un approccio caso per caso?”
La reazione iniziale dei docenti è stata piuttosto ostile: gli insegnanti di scienze, in molti casi, non sono abituati ad avere a che fare con domande di questo tipo, domande cioè a cui è molto difficile, se non impossibile, fornire una risposta che possa essere definita corretta, univoca e certa, derivabile in maniera incontrovertibile dalla conoscenza di fatti. Insieme alla destabilizzazione derivante dall’assenza di basi fattuali sulle quali poggiarsi per elaborare le proprie riflessioni, è poi emersa la frustrazione inerente al fatto che ognuna di queste domande, piuttosto che chiamare a sé risposte, faceva insorgere altre domande, aprendo una molteplicità di piste di ricerca e di riflessione talvolta dispersive e caotiche che, senza alcun dubbio, hanno generato incertezza. “Mi sembra di essere dentro a un talk show” ha detto a un certo punto un’insegnante. Queste resistenze iniziali sono state abbandonate esattamente nel momento in cui siamo riuscite a mostrargli che no, il metodo della comunità di ricerca non funziona affatto come un talk show, ma ha basi e regole completamente differenti.
Il disagio di sentirsi dentro un talk show derivava evidentemente dalla sensazione di starsi confrontando con tante opinioni diverse prive di fondamenti fattuali, “come facciamo a parlare di queste cose se non conosciamo tutta la normativa vigente in Italia e nel resto del mondo?” era stata infatti una delle altre obiezioni mosse. Il fatto che non ci fossero dei contenuti oggettivi a cui appellarsi (o che questi fossero insufficienti) era diventato sinonimo di assoluta assenza di fondamento, e quindi di impossibilità di fornire risposte razionali, il che non poteva che tradursi in chiacchiere da bar o da talk show televisivo. Lo stato di incertezza in cui si sono ritrovati alcuni di questi docenti deve essere stato evidentemente esperito come quel secondo tipo di incertezza, quello che affonda le sue radici nella superficialità. Il punto di svolta è avvenuto nel momento in cui lo stato di incertezza esperito si è trasformato da questo a quello dell’incertezza profonda, e cioè quando si è abbandonata l’ansia di non avere abbastanza contenuti oggettivi per dare una risposta unica e indubitabile, e si è compreso che rispondere a quelle domande non richiedeva il sapere o il conoscere qualcosa, quanto piuttosto il ragionare, il portare delle ragioni a sostegno delle proprie opinioni attraverso l’argomentazione. Il fatto che ci fossero opinioni diverse, che non si potesse dare una risposta certa a quella domande, non è stato più esperito come sinonimo di chiacchiere da bar, quanto piuttosto di complessità insita nel reale e nel nostro modo di interfacciarci con esso.
Al termine del corso una delle docenti che inizialmente era più scettica ci ha fatto questa confessione: “con una certa rabbia devo ammettere che mi avete convinto. Questa cosa del mettiamoci tutti in cerchio e vogliamoci bene non è che mi piacesse tanto, ma alla fine ho visto come sia in grado di stimolare il movimento del pensiero e di generare disorientamento funzionale”. Quel “disorientamento funzionale” che la docente alla fine, con nostra grande gioia, ha riconosciuto è esattamente quell’incertezza a cui è importante educare. È quell’incertezza nella quale si danno pensieri differenti e talvolta divergenti, derivanti dal riconoscimento della complessità e non dall’assenza di fondamento. Il suo risultato non è la confusione superficiale dei talk show in cui tutte le opinioni si equivalgono, ma piuttosto il mettere in moto una ricerca, per approfondire e mettere alla prova le proprie convinzioni.
In fondo, a ben guardare, anche la stessa pratica scientifica funziona in questo modo. Quell’entità astratta che chiamiamo scienza è fatta in sostanza da persone che fanno ricerca e pubblicano, nel senso proprio di rendere pubblici i loro risultati, così che attraverso il confronto e il controllo reciproco la scienza possa progredire. I risultati che vengono resi pubblici non hanno lo statuto di fatti inoppugnabili: accade spesso che uno studio venga rivisto alla luce dell’insorgere di nuova evidenza disponibile o dello sviluppo di nuovi protocolli sperimentali, accade anche che uno studio venga interamente ritirato poiché confutato da altre ricerche. Al tempo stesso, questi risultati non hanno lo statuto di mere opinioni, non soltanto perché sono il frutto dell’impiego del metodo sperimentale, ma proprio perché, nel loro essere pubblici, sono continuamente sottoposti a controllo e verifica da parte degli altri membri della comunità scientifica. I risultati della ricerca scientifica sono incerti senza essere privi di fondamenta, così come le conclusioni a cui si giunge al termine di una sessione di dialogo filosofico sono incerte e provvisorie senza configurarsi come opinioni da talk show, danno luogo a stati di incertezza profonda senza scivolare nelle forme dell’incertezza superficiale.
Questa analogia tra pratiche filosofiche e pratiche scientifiche, con gli inevitabili limiti che porta con sé, non è, per altro, affatto casuale. In un senso, infatti, il funzionamento della comunità scientifica è stato il modello a cui Matthew Lipman, fondatore della Philosophy fo Children, si è ispirato per elaborare la sua proposta educativo-pedagogica. Concetto cardine della P4C è infatti quello di “comunità di ricerca”, espressione coniata in origine, nell’ambito del pragmatismo americano, da Charles Sanders Pierce per designare proprio i professionisti della ricerca scientifica. Con le parole di Lipman, la comunità di ricerca è quello spazio nel quale: “gli studenti ascoltano con rispetto gli altri, integrano le idee degli altri, chiedono agli altri di fornire ragioni a supporto delle loro opinioni, si aiutino a vicenda a trarre conclusioni da quanto detto e cercano di individuare le assunzioni degli altri” (Lipman, Educare al pensiero, p.31).
Lo spazio della comunità di ricerca è uno spazio caratterizzato da incertezza profonda, che non si traduce però, o non si dovrebbe tradurre mai, in quel tipo di incertezza superficiale in cui le idee sono il frutto di istanze personali non sostenute da argomentazioni ragionate, né sottoposte al vaglio del confronto razionale. Per questa ragione, la comunità di ricerca si configura come un potente metodo di educazione all’incertezza, incertezza alla quale, spero di essere riuscita a mostrare, è fondamentale e necessario educare. Più esattamente, ciò che è importante coltivare è la relazione che si ha con l’incertezza, il modo di stare davanti e dentro essa: stati di incertezza superficiali danno origine a relazioni contrassegnate da paura o ansia; stati di incertezza profonda generano invece spinte a guardare sotto la superficie. L’incertezza profonda è ciò che mette in moto la ricerca e l’approfondimento, arginando la tentazione, da un lato, di accettare a-criticamente tutto ciò che venga da chicchessia presentato come vero e, dall’altro, di cadere in forme di relativismo estremo in cui non vi è modo per distinguere la qualità delle opinioni e dove dunque, avendo tutte egual valore, finiscono tutte per non averne più alcuno.