Filò

Quando l'educatore si toglie... di mezzo

di Sara Gomel

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un articolo del 2016, pubblicato sul numero 31 della rivista Gli Asini, di un maestro di scuola elementare che conosco e ammiro molto, Franco Lorenzoni. Raccontava il suo primo giorno di scuola dall’altra parte, non da bambino ma da maestro, ricordando il senso di incertezza e di stupore che lo aveva colto quella mattina, la sensazione precisa che la scuola gli stesse improvvisamente “cadendo” addosso.

Mi sono sorpresa, nel leggerlo, di quanto il suo racconto di cadute e traballamenti fosse simile alla memoria che ho conservato io, del mio primo giorno di scuola.

Mi avevano chiamato per una supplenza breve nelle ore pomeridiane, in una scuola dell’infanzia di Parigi. Ero una studentessa triennale di filosofia e non entravo in una classe da quando ne ero uscita l’ultima volta, a 19 anni. Non ricordavo nemmeno come fosse fatta una classe di una scuola dell’infanzia! Ero spaventata, ma al tempo stesso divertita e curiosa di conoscere i bambini.

La prima impressione fu di pura meraviglia, una meraviglia che potrei definire “antropologica”: appena entrata in classe vidi girarsi verso di me decine di occhi, che mi osservavano con la bocca semichiusa e uno sguardo interrogativo. Non avevo mai visto tanti bambini di 4 anni tutti insieme e di fronte alla vista di quegli ometti in miniatura mi scappava quasi da ridere. I miei tentativi di farli sedere in cerchio e di dialogare con loro furono disastrosi. Ognuno era impegnato a seguire il filo dei propri pensieri, e cosa voleva poi quella sconosciuta che di punto in bianco aveva preso in mano la situazione? 

Fu quando mi risolsi ad abbandonare i miei piani che mi accorsi che in classe c’erano dei piccoli strumenti musicali: uno xilofono, un tamburello, qualche flauto. Ci alzammo tutti in piedi e cominciai a suonarli, invitandoli a danzare a ritmo, prima lentamente, poi con un ritmo sempre più forsennato, quasi vorticoso. Ci divertimmo un sacco: io ridevo e i bambini erano allegri, o meglio, esaltati. Mi guardavo da fuori con leggera presunzione e mi piaceva non essere la solita maestra noiosa che li sottoponeva al rito infelice di colorare immagini prestampate, o che li obbligava a sedersi “composti”. 

Ma intanto l’eccitazione si era trasformata in un gran trambusto: c’era chi correva da una parte all’altra della classe, chi urlava, chi saltava, chi tirava fuori oggetti dai cassetti. Riportarli alla calma fu un’impresa eroica, quasi impossibile. Ma non avevo scuse, me l’ero cercata: ero stata io a provocare lo scatenamento generale. Certo, l’avevo fatto in totale buona fede, volevo che si divertissero e che passassero con me un bel pomeriggio. Ma alla fine li avevo persi e avevo così scoperto quel tipo particolare di divertimento che ai bambini piace tanto nei primi minuti, ma che in poco tempo li lascia distrutti, se non in preda a una crisi di pianto. Avevo generato, senza averne compreso il peso, uno stato di esaltazione innaturale che aveva finito per prostrarli. 

Mi consola sapere che anche un grande maestro come Lorenzoni abbia vissuto nella sua gioventù un’esperienza simile, che l’ha portato a riflessioni affini alle mie: “L’attitudine a provocare con facilità eccitazione e caos e ad incontrare grandi difficoltà nel ristabilire ordine e quiete (…) appare ora ai miei occhi come un difetto ancor più grave, nel lavoro con i bambini più piccoli”. Ma perché esattamente? Cos’è che di preciso accade in queste situazioni?

Nel mio caso, provocare il caos era stato sì un modo per rompere il ghiaccio e farli divertire, ma nel profondo di me stessa sapevo che l’impulso che mi aveva mosso era un altro: volevo essere diversa, speciale ai loro occhi. Ci è voluto del tempo per raccontarmi la storia per com’era andata veramente, e tante e tante ore in classe ad affrontare la frustrazione di un pensiero che mi tormentava: piacerò o no ai ragazzi? sarò abbastanza brava? 

Quando ho iniziato a lavorare con la filosofia con i bambini, a 23 anni, e poi come maestra di scuola materna, grazie alla frequentazione assidua e continua dei bambini, ho cominciato a capire che la mia preoccupazione di piacere era ingannevole, che non mi sarebbe servita a niente e che, soprattutto, mi avrebbe spostato dal mio reale compito: occuparmi dei bambini, del loro benessere e della loro crescita. Non dovevo vincolarli a me, al contrario: dovevo accompagnarli nel loro processo di scoperta della realtà, lavorare affinché si aprissero al mondo, affinché fiorissero. Ma in questo io dovevo necessariamente farmi piccola, o meglio, compiere una rivoluzione copernicana e togliermi dal centro del loro sguardo. 

Nel suo articolo Lorenzoni cita Pier Paolo Pasolini, parlando appunto di educare “alla libertà”. Dopo il suo primo anno di scuola da maestro in Friuli, in riferimento al suo rapporto con gli studenti, Pasolini scriveva: “Capii che erravo credendo che il nostro rapporto dovesse essere un rapporto di reciproco amore: no, io dovevo mettermi in disparte, ignorarmi, dovevo essere mezzo, non già fine, d’amore”.

Mezzo, questo è ciò che un bravo maestro, insegnante, professore, dev’essere. Accompagnatore, e non attore principale. Il lavoro di educatore ci chiede un atto di umiltà, un atto che nel privare di spazio ai nostri personali desideri, cede spazio ai desideri degli altri.

Non voglio con questo difendere una sorta di “martirio” dell’educatore, al contrario. In quanto accompagnatori non ci è chiesto di negare noi stessi, la nostra personalità e le nostre attitudini, ma di esprimere, raccontare, mostrare di noi quanto possa essere utile all’accrescimento dei nostri ragazzi.

Concludo così: per chi sentisse forte in sé la vocazione dell’educatore ma fosse ancora fermo al primo stadio, quello dell’autocompiacimento, un consiglio. Fate un giretto in una classe di scuola media. Basterà una decina di minuti per minare la brillante immagine di voi che in tanti anni avete faticosamente costruito. Ma ne vale la pena!